In occasione della mostra Pop Classicism la galleria Deodato Arte ha realizzato per il catalogo ufficiale un'esclusiva intervista che ripercorre il processo creativo dell'artista Daniele Fortuna.
Dopo gli studi in design e un’esperienza all’estero ti sei avvicinato sempre di più al mondo dell’arte fino a diventare uno scultore e artista a tutti gli effetti. Come e quando è nata questa passione e cosa ti ha portato a intraprendere la carriera di artista?
Ho lavorato in uno studio di light design nei pressi di Dublino. Avevano lavori di designer italiani e io mi occupavo di progettazione di interni, poi sono tornato in Italia e ho lavorato in uno studio di architettura, ma per poco tempo. Sono una persona che ha bisogno di armonia e lì ho trovato un ambiente ostile, era tutto troppo pesante per me e ho deciso di abbandonare l’architettura e di non seguire più quella strada, proprio perché non mi piaceva l’approccio.
Fin dall’università ero stato abituato ad essere molto creativo, i progetti che facevamo allo IED (Istituto Europeo di Design) erano progetti che sarebbero costati milioni e milioni di euro per essere realizzati e mi permettevano di liberare la mia creatività. Nella realtà è tutto completamente diverso, c’è poca creatività e tanto calcolo, misure e cose che a me non piacciono.
Ho avuto una forte crisi perché non sapevo cosa fare nella vita. Io sono cresciuto in un contesto che ha sempre amato l’arte, sempre vissuto l’arte e vissuto con intorno artisti. Mio padre conosceva galleristi importanti della Milano degli anni Ottanta che oggi sono storicizzati, come Brindisi, Migneco, Cascella. Già da piccolo ero attratto dal mondo dell’arte e avevo da sempre frequentato mostre, fiere, gallerie. La vita evidentemente mi ha nuovamente trascinato a forza nell’arte: tramite un mio amico che faceva l’artista ne abbiamo parlato e lui mi ha detto che vedeva in me una creatività molto accesa e mi ha suggerito di provare a fare qualcosa di mio. Così ho iniziato a ridimensionarmi e mi è piaciuto tantissimo perché tutto quello che pensavo lo creavo nei miei quadri.
Lavoravi già con il legno?
Sì, lavoravo già il legno. Disegnavo, tagliavo e poi assemblavo, ma inevitabilmente mi associavano a Ugo Nespolo, anche se la sua arte è sempre stata più frammentata, spezzettata. Mi sono andato a scontrare con un mercato dove le persone apprezzavano moltissimo quello che facevo, ma non riconoscevano un mio linguaggio. Ciò mi rendeva triste perché non volevo essere associato a qualcuno, volevo essere riconosciuto. Fin da piccolo i professori mi chiamavano per nome, non ero un numero. Volevo lasciare un segno e quindi ho deciso di ripartire, ma di ripartire da quello che sapevo fare, perché non puoi fare qualcosa che non conosci. Ho proseguito quindi la mia ricerca sul legno, un materiale che conoscevo e sapevo tagliare e modellare molto bene nei miei quadri. Vedevo che il legno sovrapposto creava un volume e ho cominciato a fare le prime forme, piccole. Era una cosa nuova per me, ma ho notato che da quel momento (era il 2011) le gallerie si iniziavano a interessare a me e non mi associavano più ad un altro artista e questo mi ha spinto a continuare in quella direzione. Da lì sono arrivato al neoclassico, al classico. Questo perché mi scontravo con un pubblico che amava l’arte di Caravaggio, di Canova e ho capito che era inutile cercare di imporre la mia idea, volevo fare qualcosa di comune alla nostra cultura, che tra l’altro noi non valorizziamo neanche così tanto. Volevo renderla più contemporanea per renderla più fruibile e popolare ai nostri giorni. Volevo accorciare la distanza verso l’arte “sacra” e in un certo senso intangibile, inarrivabile.
Ho notato che il soggetto classico è oggi una caratteristica comune, sia negli artisti che nel design e nella moda, un percorso che io seguivo da tempo, avendo iniziato nel 2011-12 a realizzare soggetti classici, sempre con l'esigenza di riportare quel tipo di scultura ai nostri tempi.
Non è stata una rottura con la tradizione, hai cercato di proteggerla.
Se io ricerco una rottura creerò sempre una distanza. Quello che cerco non è una distanza, ma continuare un percorso, continuare un qualcosa che fa parte di noi. Ho sempre amato la storia, così come la mitologia. Il mio genere preferito è il fantasy e sono attratto da tutto ciò che mi fa evadere con la testa. In genere cerco sempre di evadere perché la realtà purtroppo è quella che è. Ci si può rifugiare in altri mondi e questo non vuol dire dissociarsi, ma è un modo per ricaricarsi, perché la vita è già abbastanza pesante e stressante. Anche realizzare le mie sculture è un modo per ricaricarmi. Quando creo è come se mettessi da parte le ansie e i problemi e sono più tranquillo.
È un processo molto personale?
Sì, voglio sempre esprimere qualcosa con le mie opere. Non faccio opere fini a se stesse. C’è sempre un significato dietro quello che faccio.
Mi piace soprattutto spaziare creando tanti linguaggi. La serie Colormination è un linguaggio, Heads will roll è un linguaggio, quello che sto facendo adesso è un altro tipo di linguaggio. Hanno diversi messaggi, però fanno parte tutti di un percorso comune. Non riuscirei a fare una cosa ripetitiva, devo sempre rinnovarmi, distruggere per potermi ricostruire e creare nuove strutture, ma sempre con la tecnica che mi appartiene.
La serie Colormination è composta da sculture che presentano delle voragini in cui si apre un universo di colore. Qual è il signicato di questa serie?
La colormination (“color” + “contamination”) è quello che avviene all’interno delle sculture e porta con sé diversi concetti. Se noi dovessimo, per ipotesi, spaccare una scultura in marmo bianco, all'interno troveremmo tutti i colori che il marmo scolpito non ha più. Ma la colormination rappresenta anche le sfaccettature che noi abbiamo come persone. Tutti quei colori rappresentano ogni lato di noi, fanno parte di noi e creano il quadro generale, la bellezza della nostra vita.
La serie Thologiny sembra quasi un alfabeto della tua arte, cosa significa questa parola?
“Thologiny” viene da “mythology”. Sono dei piccoli totem spesso legati a delle parole e ognuno di loro ha qualcosa da dire. I Thologiny ti avvisano di qualcosa di importante nella vita e associarli a parole o ad altri elementi rende viva la scultura, come se volesse dirci qualcosa.
Degli artisti contemporanei della tua generazione o di generazioni precedenti quali sono state le tue fonti di ispirazione?
Sono state moltissime. Io penso, e spero che tutti gli artisti lo ammettano, che noi artisti siamo sempre contaminati da altri artisti. Non esiste l’originale, l’artista copia o si fa influenzare da un altro artista e l’originalità sta nel rendere suo quel linguaggio, ma c’è sempre uno spunto. É importante essere contaminati da tutto ciò che ci circonda, dal nostro passato al contemporaneo.
Ad esempio amo tanto Ugo Rondinone e i suoi massi sovrapposti. In alcune mie opere (parlo della serie Heads will roll) questi massi diventano teste e vanno a creare delle composizioni.
L’intera Pop Art, Andy Warhol fra tutti, mi ha influenzato molto.
Adesso invece sto portando avanti un progetto fortemente ispirato ad Alighiero Boetti. Mi piace come gioca con le lettere, con le parole. Ricordo che cercavo sempre di capire cosa dicevano le sue opere, lo trovavo affascinante. Nel mio progetto cerco di portare Boetti nella tridimensionalità.
Quindi sì, per me è molto importante vedere quello che fanno gli altri artisti, soprattutto i contemporanei, e trasformarlo nel linguaggio classico che mi appartiene e che non voglio perdere perché lo sento veramente mio.
Una delle cose più evidenti della tua arte è la contrapposizione tra estetica classica e Pop, ma sembra che questi (apparenti) opposti possano coesistere e lo fanno molto bene.
Noi pensiamo che quando una cosa nasce quadrata deve rimanere tale. Secondo me bisogna sempre cercare un punto di incontro. Le statue classiche in realtà non erano bianche, ma colorate. Inoltre venivano fatte per rappresentare un Dio o un atleta e lì avevano una loro storia. Poi il passare del tempo le cambiava, fino a farle arrivare a noi in parte distrutte, senza alcune parti, e ciò rappresenta un’altra tipologia di storia. Trovo affascinante che la stessa scultura abbia storie parallele, una storia dettata dal suo personaggio e l’altra storia da quello che ha vissuto. Mi chiedo anche io come sarà la mia scultura tra 100 o 200 anni, come il tempo la cambierà.
Un’altra contrapposizione riguarda la realizzazione tecnica delle tue opere. Ricordano delle produzioni digitali, ma in realtà la tecnica è squisitamente artigianale.
Oggi abbiamo la tecnologia che può permetterci di creare un qualcosa molto velocemente, ma per me è importante metterci del tempo nel creare, in quel tempo voglio metterci anche uno stato d’animo. A volte mi dicono che le mie sculture sembrano stampate in 3D, poi quando le vedono dal vivo è evidente che non sono fatte da una stampante 3D, ma c’è dietro un lavoro complesso, artigianale. Preferisco che le persone si meraviglino dopo e non prima.
È un’ambiguità interessante.
Io sono così, come persona. Sono una persona che superficialmente viene giudicata in un modo, poi mi conoscono, conoscono il mondo che c’è dietro e mi giudicano in un altro modo. Secondo me è molto meglio così che pretendere di apparire come realmente sei. Quando parlo con qualcuno e incomincio a scoprire che persona è lo rivaluto, vado a fondo. Pensare di conoscere già una persona è arrogante, saccente e ti preclude la possibilità di farti contaminare da chi hai davanti.
Per questo dico che dietro le mie sculture c’è un mondo che nasce dal mio farmi contaminare dalla gente che incontro e che mi dà spunti, idee, pur senza saperlo.
A livello di processo creativo, come nascono le tue opere?
Durante la giornata sono veramente bombardato da tante cose e l’unico momento in cui posso concentrarmi è quando sono a letto. Al buio, con la luce spenta, la mia testa comincia a viaggiare. Comincio a mettere i tasselli di quello che mi è interessato durante la giornata. Durante la notte ho il tempo di riflettere e di trovare l’ispirazione per quello che voglio fare. Penso che l’ispirazione debba venire in maniera naturale, senza sforzarsi. Quando ho una cosa dentro la mia testa riesco già a immaginarla e la realizzo. Non mi è mai successo di avere una visione che una volta creata è risultata diversa da quello che avevo pensato. È sempre un percorso molto coerente, dal pensiero alla creazione.
La realizzazione è un processo più tecnico però.
Io ho una formazione in architettura, ho sempre lavorato partendo da una piantina, dalle proiezioni ortogonali. Da lì poi arrivi alla terza dimensione. Creando le forme ci lavoro sopra aggiungendo gli elementi che sono più semplici da realizzare. Anche per scavare l’opera, che è molto semplice, parto dalla forma e rimuovo un pezzo per volta fino a creare la scavatura. Poi aggiungo la cementite e infine il colore.
Sul colore sono impulsivo, non ragiono tanto sui colori, ma quando vedo la scultura realizzata capisco che colore voglio darle. Dalle mie prime sculture alle ultime ci sono grandi differenze, sono cambiate insieme al mio gusto. In questo momento sto utilizzando colori più delicati perché li trovo più in sintonia con come mi sento, un giorno forse tornerò ai colori accesi. Fa tutto parte di come mi sento a livello mentale e a livello di gusto. E soprattutto spero che tra qualche anno farò cose diverse da quelle che sto facendo adesso proprio perché mi piace crescere. Non ha senso dire “io sono nato così” perché puoi sempre modificarti. Chi nasce quadrato e muore quadrato non si è mai messo in discussione, non ha mai riflettuto su sé stesso. Per me è così anche per l’arte: se miglioro io migliora quello che faccio.
La tua vita personale influisce sulla tua arte?
Assolutamente sì. Non si deve soffrire per forza, ma ogni sofferenza porta dei cambiamenti. Ho visto persone che hanno avuto disgrazie nella vita e adesso sono più cattive di prima, ma secondo me rappresenta una sconfitta. La soluzione vincente è essere attivo per migliorare. Se hai un obiettivo, se vai fino in fondo, prima o poi la vita ti ripaga. Ovviamente devi muoverti sempre in maniera onesta, corretta e rispettare il prossimo. Tantissimi non mi hanno rispettato, ma non è un motivo valido per non rispettare gli altri.