In occasione della mostra "Marco Glaviano: a life of photoshoots", la prima dell'artista in una galleria italiana, la galleria Deodato Arte ha realizzato per il catalogo ufficiale un'esclusiva intervista che ripercorre tramite le parole del fotografo una carriera unica e irripetibile.
Siciliano d’origine, newyorkese d’adozione, Marco Glaviano ha trascorso buona parte della sua vita negli Stati Uniti ed è oggi uno dei più noti fotografi di moda contemporanei. Con il suo lavoro Glaviano ha reso immortali le top model che, negli anni ’80 e ’90, incarnavano l’immagine stessa della bellezza, quali Cindy Crawford, Paulina Porizkova, Claudia Schiffer ed Eva Herzigova.
Quando e come è nata la tua passione per la fotografia?
Ho cominciato a sei anni. Avevo uno zio che lavorava nel cinema come sceneggiatore e mi regalò da piccolo una Leica: un evento incredibile per un bambino di sei anni a quei tempi.
Poi le cose sono lentamente cambiate, ho scoperto la musica jazz e mi sono messo a suonare con una certa passione, mentre studiavo architettura. Ma finita l’università ho mollato la musica e l’architettura: la fotografia ha vinto. Le prime foto le ho fatte a musicisti di jazz. Tra il 1965 e 1966, quando andavo a suonare nei festival, fotografavo gli altri musicisti, anche tra i più famosi al mondo, tanto che alcune di queste foto sono ancora le mie più importanti. In poco tempo le mie fotografie erano sempre più richieste dai musicisti stessi.
Alla fine sono entrato nel circolo della moda con illustri contemporanei, che erano tutti ragazzi, quali Armani, Versace, Ferrè, Missoni. L’Italia, Milano, tra la fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta, era governata dalla moda italiana che conosciamo oggi. Non è stato un cambiamento, è stata una rivoluzione. Quello che ha fatto la nostra generazione, diciamoci la verità, è stato creare qualcosa che non esisteva. Adesso ci sono cambiamenti direi “incrementali”, ci sono persone che portano contributi, ma un cambiamento così radicale nel giro di pochi anni non credo sia mai successo prima onestamente. Ho paura che non succederà di nuovo, spero di sbagliarmi. Da quello che vedo non mi sembra.
Il tuo trasferimento a New York ha sancito l’inizio della tua carriera da fotografo?
No, è successo prima. Nel 1960, quando ho cominciato ad andar via da Palermo, un po’ alla volta, scoprivo un altro mondo. Sebbene la Sicilia fosse indietro, rispetto alle innovazioni del nord, era molto avanti intellettualmente, perché Palermo era una città dal grandissimo potenziale, con molte persone di grande spessore che ho avuto la fortuna di conoscere, come Leonardo Sciascia. Io vengo da una famiglia di artisti, ho avuto la fortuna di crescere immerso nell’arte, oltre che di avere un sostegno culturale che altrimenti sarebbe mancato. E poi da lì Roma che però mi ha deluso.
Così, una notte, dopo pochi mesi a Roma in uno studio, sono scappato con un camion in affitto, e ho guidato fino a Milano dove sono approdato, di notte, sotto la pioggia, in un loft, anch’esso in affitto. Lì è cominciata l’avventura della moda a Milano e ho incominciato a incontrare moltissime persone che mi hanno davvero aiutato. Cito tra tutti Anna Piaggi, forse la giornalista più influente della moda italiana. Anna era sposata con un grande fotografo e senza nessuna gelosia veniva nel mio studio la sera e mi aiutava a fare i test per la fotografia. Io non sapevo nemmeno da dove cominciare. Anna, con questa generosità che ha sempre avuto, mi ha molto molto aiutato.
Perché poi, aprire una porta e rimanerci dentro non sono la stessa cosa. L’introduzione è molto utile, ma per rimanere ti devi fare valere. Così ho cominciato a fotografare e sono rimasto a Milano per alcuni anni, poi sono andato a New York per due settimane, nei primi anni Settanta. E ci sono rimasto 45 anni, non sono poi più tornato.
Ora sei tornato però...
Sì, ma sono tornato dopo più di 40 anni. È stato un periodo dove avevo quasi dimenticato l’italiano. Mi prendevano in giro: “Tu vo fa l’americano”. Ma era vero, perché dopo un po’ viene a mancare la convivialità, l’essere italiano.
Ora sono tornato siciliano, per fortuna il ciclo si è chiuso, non sono più americano anche se lo sono di nazionalità. Naturalmente ho rivalutato moltissimo l’Italia, che invece in quel periodo mi stava stretta, volevo scappare, provare altre cose. E devo dire che anche quello è servito, perché la New York degli anni Settanta era un vulcano. Andavo a trovare Andy Warhol, cose che in Italia non esistevano. E sono rimasto lì con grande fatica, non è stato facile, è notoriamente difficile. Ci sono stati dei momenti di sconforto, ma avevo bruciato tutti i ponti con l’Italia e non potevo tornare indietro. Sono rimasto lì. Nel male o nel bene ce l’ho fatta insomma, ci è voluto un bel po’ di tempo.
Comunque la fotografia è stata, ed è ancora, una delle mie passioni più importanti insieme alla musica. Poi tutte le arti in generale. Considero l’architettura l’arte più importante. Perché l’architettura comprende tutto: il visivo, il ballo, la musica, la danza, l’opera, il sociale. Nell’architettura c’è tutto.
Hai avuto tanti interessi che convergono poi nell’interesse principale, la fotografia.
Avere altri interessi è fondamentale. Si inaridisce in una disciplina sola. Devi avere un dialogo con le altre persone, devi vedere cosa ti succede attorno, secondo me. E possibilmente abbracciarlo. Io ho fatto principalmente metà della mia vita in una camera oscura, tutte le notti. Fare il fotografo non vuol dire solo stare fuori, scattar foto.
Poi sono arrivate le sperimentazioni digitali: ho pubblicato la prima foto digitale nel 1982, quando Macintosh non esisteva ancora. Ero curioso di vedere gli sviluppi, a cosa avrebbe portato il progresso tecnologico, che ancora oggi continua. Non mi sono però mai dimenticato di rispettare la tradizione. Conosco tanti giovani fotografi che non sanno chi è Richard Avedon: non puoi costruire sul vuoto. In tutta la storia dell’umanità si è costruito sulle spalle di chi è venuto prima, mentre oggi mi sembra ci sia la tendenza a buttare via tutto ciò che è vecchio e rifare dal nuovo. Secondo me sarà difficile, auguro di riuscirci ma non credo. Una base da cui partire ci va sempre, in qualunque campo dalla scienza all’arte, anche in politica non si può inventare da zero.
E per te, Marco Glaviano, oltre ad Avedon che hai già citato, quali sono stati i maestri della fotografia, le tue fonti di ispirazione?
Maestri ideali Richard Avedon e Irving Penn, che però ho conosciuto purtroppo quando ero già molto più avanti. Avedon l’ho conosciuto quando avevo già 60 anni.
Helmut Newton è sicuramente uno dei fotografi che più ha accompagnato la mia crescita: abbiamo avuto un rapporto buono e un po’ meno buono a seconda dei suoi sbalzi d’umore e dei miei. Però adesso il fatto di fare una mostra nella galleria Deodato Arte, che rappresenta me e ha in collezione anche opere di Helmut Newton, mi fa un enorme piacere. Siamo nella stessa galleria, è straordinario, non lo avrei mai potuto immaginare quando lo ho conosciuto da ragazzino.
Ci vogliono due cose secondo me, la perseveranza e anche un po’ di fortuna. Senza la fortuna magari certi incontri fondamentali che ti cambiano la vita non avvengono. E poi lavorare, non puoi restare fermo senza far niente.
Una domanda sul concetto di fotografia: per te qual è il rapporto tra fotografia e realtà? Pensi che la fotografia sia un’immagine fedele della realtà?
Qualche mese fa parlavo con Oliviero Toscani, e lui ha detto una cosa molto interessante che condivido: “certe cose esistono solo perché sono state fotografate”. È un’esagerazione da un lato, però è vero. Perché una cosa tu la vedi, c’è perché è stata fotografata, se no non c’è. Quindi c’è questa relazione tra realtà e fotografia. Purtroppo, o per fortuna, sta finendo, perché con la tecnica digitale adesso distinguere la realtà dalla finzione, se fatto bene, è impossibile.
Il fotografo costruisce un’immagine come la vede nella sua testa, non deve necessariamente essere lì. Non abusare di questo è la cosa importante. Quindi la fotografia, secondo me, come testimone della realtà ha fatto il suo tempo. Esempio tipico è il fenomeno di Instagram e delle influencer: non sai più questa persona come realmente è. È chi vuole essere. E la fotografia non rispecchia più la realtà del fotografo.
Siamo sempre più sommersi di immagini.
Sì. Una volta c’era un lavoro di ricerca da parte degli addetti ai lavori, i giornalisti di moda erano fantastici, scoprivano i talenti. Adesso è tutto incentrato sul marketing, ognuno vende i propri prodotti in uno spazio francobollo. Non importa a nessuno che l’immagine sia buona o no, basta che ci sia.
Invece sul fronte delle gallerie d’arte, come da Deodato Arte, la fotografia sta lentamente e finalmente avendo il riconoscimento che prima non aveva, perché si è rifugiata lì, negli unici posti in cui si può vedere. Non potendola mettere su Vogue ogni mese, la mettiamo nelle gallerie. Perché alle persone piace, riescono ad apprezzarla, la comprano e la appendono in camera. Questo è ciò che più mi piace. Se una persona acquista, allora penso che veramente sia interessata, non per i soldi, ma perché una persona fa un investimento pratico e vero su una cosa che veramente ama. Apprezzo molto la passione di questi collezionisti. Effettivamente vuol dire che ci tengono.
Entrando nello specifico, questa esposizione sarà divisa tra Icons, i tuoi classici, e Polaroid, immagini più intime, personali.
Le polaroid sono testimonianze di un’immagine non modificata. Oggi la prima reazione di chi vede una foto di una bella donna è “ma è Photoshop!”. La polaroid non mente. Stanno diventando sempre più di moda, tantissimi fotografi scelgono le polaroid perché ci liberano da questo pregiudizio per cui è tutto è percepito come finto. La polaroid non esiste più tecnicamente, però ha assunto questa valenza di documento “vero”. E ciò ha una certa importanza.
Una domanda sulle modelle, le tue muse. Ce ne sono alcune che si riflettono meglio nel tuo stile? Ci sono tratti che si rispecchiano meglio nei tuoi scatti e ti rendono maggiormente soddisfatto?
Il rapporto con le modelle in quegli anni è stato incredibile. Erano loro a decidere, io ho solo fatto da testimone, avevano uno stile e un’idea di come volevano essere. Queste sono le mie modelle.
Cindy Crawford, per esempio. Lei è sempre stata una che ha comandato. Io ho avuto delle discussioni epocali con lei e ne ridiamo adesso che ci sentiamo ancora. Lei diceva una cosa, io dicevo di no e si discuteva. Però aveva un suo punto di vista, così tutte le più grandi che ho fotografato.
Paulina Porizkova ad esempio. Paulina se ne andava a metà dello scatto e mi diceva “basta ce l’hai”. Non riuscivo a finire un rullo. “Ce l’hai già, lo so” diceva. E aveva ragione. Ritrai una cosa che ha una storia che ti affascina. Vale per tutto, vale anche per i paesaggi.
Quindi quale bellezza ricerchi nei tuoi scatti?
Assolutamente non esteriore. Ci sono delle coincidenze dove c’è una grandissima bellezza fisica esteriore però accompagnata da qualche altra cosa, e lì è importante.
La bella bambola, la Barbie bionda con gli occhi azzurri da sola non serve a niente. Se questa bambola è intelligente, capisce il mondo, sa come muoversi, sa come vestirsi, sa dove andare allora diventa un’altra cosa. Diventa un soggetto interessante. Poi è assolutamente falso che le donne belle sono stupide, questa è una cosa che posso assolutamente confermare per esperienza. La bellezza esteriore non riflette necessariamente quello che c’è dentro.
Per te cos’è la bellezza?
La bellezza è come la musica. La musica alla fine sono tre accordi, da Bach in poi anche meno. E questi tre accordi hanno fatto delle cose meravigliose. È assonanza, è matematica, alla fine finisce tutto nella matematica.
Sono delle equazioni che stanno bene fra di loro e quindi piacciono all’essere umano che ha bisogno di armonia, in senso naturale, evolutivo. Quando queste cose si incontrano, si crea una bella immagine, una bella persona, ma si devono incontrare questi elementi, non basta essere belle.
Ci sono estetiche oggi particolarmente promettenti, che offrono un qualcosa di originale?
Ogni tanto vedo delle modelle molto interessanti, però sono un po’ fuori contesto. Dato che non ci sono più le riviste, ma le piattaforme, i social, bisognerebbe spendere un tempo enorme per capirle. Ci sono miliardi di contenuti, come fai a vederli tutti? Diciamoci la verità, nel 1970/80 compravi Vogue America e chi era sulla copertina era la più bella. Adesso come fai? Bisogna filtrare qualche miliardo di immagini su Instagram? E anche sulle riviste, le immagini sono anonime, sono senza scopi, non ci vedo una visione.
D’altro canto quando io suonavo jazz mio padre mi ha chiuso il pianoforte a chiave, non mi capiva. Io dicevo “questo qui è pazzo”. E starà succedendo la stessa cosa con me, sarò io che non capisco e visto che tutti i giovani sono così e il mondo va avanti e non indietro probabilmente hanno ragione loro.
Che cos'è, per te, l’arte?
Secondo me è armonia di tante cose, l’arte è una cosa che fa piacere ai sensi, a tutti i sensi, l’arte può anche essere un buon profumo.
Arte è tante cose, per me è una cosa che ti arricchisce l’animo e l’esperienza della vita e ti fa sentire bene anche quando le cose non vanno tanto bene. Secondo me è quello, per trovare una definizione semplice di arte che tutti possano condividere. Perché ci sono delle cose che secondo me fanno stare male e vengono passate come arte, ma come ti dicevo non sono un esperto.